Un mix di letture e canzoni con cui riflettere, caricarsi e ispirarsi per iniziare la settimana 😉
Consigli di scrittura e di vita di Isaac Asimov
In questo ultimo periodo sto ragionando sul tempo, sul mio ritmo, quello passato e quello futuro. Ragiono seriamente sulle mie potenzialità e sulle cose che non ho fatto, che potrei fare ancora.
Alcune volte mi sembra di avere tutto il tempo del mondo; altre mi sento spacciata, chiusa in uno schema, destinata mio malgrado a non poterne uscire. (Zelda was a writer)
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Mi mancherai sempre Kent Haruf (però ci sei)
Cathy Haruf, Matteo Persivale
Nel febbraio del 2014 Kent Haruf ricevette dal suo medico una diagnosi senza speranza — soffriva, gli spiegò, di un male inoperabile, senza la prospettiva di una terapia, fatale.
Quanto tempo gli restava?
Sicuramente meno di un anno. Per le prime settimane, nella sua casa in montagna, accanto alla adorata moglie Cathy, Haruf rimase tranquillo a riposare, quasi sempre in silenzio, a leggere e camminare e guardare il paesaggio che gli piaceva tanto.
A maggio però si mise alla scrivania e cominciò a fare quello che aveva fatto per tutta la vita, da quando era ragazzo: scrivere.
A settembre, il suo editor e amico fraterno Gary Fisketjon — uno che oltre a Haruf ha editato i libri di Cormac McCarthy, Donna Tartt, Bret Easton Ellis, Patricia Highsmith, Tobias Wolff, Julian Barnes — ricevette una mail: «Sorpresa». In attachment, c’era Le nostre anime di notte (NN editore), che esce ora in Italia presentato dalla signora Cathy.
A Milano e Torino mancherà l’autore — la diagnosi si rivelò esatta, è scomparso il 30 novembre del 2014 e non ha neppure fatto in tempo a vedere pubblicato negli Usa l’ultimo romanzo della sua bellissima carriera.
Haruf, insegnante oltre che scrittore, capiva al volo la qualità di un libro — anche dei suoi. Disse a Fisketjon che si trattava di un libro diverso dagli altri. Aveva ragione: è ancora più asciutto, cechoviano: racconta la vita in modo ancora più semplice e preciso di quanto facciano gli altri suoi libri. E questo è il ricordo di sua moglie:
La scrittura era la religione di Kent. I suoi personaggi nascevano dalla compassione e dall’amore, perfino i “cattivi”. Kent non aveva paura di osservare gli aspetti più oscuri della natura umana; non giudicava i personaggi, ma ne vedeva le ferite, la lotta contro la loro stessa umanità. In compenso, altri personaggi mostravano un’indole positiva — il sostegno di Maggie Jones e dei fratelli McPheron a Victoria in Canto della pianura; Rose Tyler, l’assistente sociale di Crepuscolo; Lorraine in Benedizione.
Kent amava tutti i suoi personaggi, e il senso delle sue storie emergeva proprio dalle interazioni fra loro. Le descriveva in maniera semplice e diretta, senza prediche o giustificazioni; credo che sia questo il motivo per cui i suoi libri hanno commosso così tante persone.
In Raymond McPheron e in Ike, il più grande dei due ragazzi di Canto della pianura, sento la voce e la dolcezza di Kent; nelle parole del Reverendo Lyle in Benedizione sento il suo augurio di felicità per tutti.
Amo in particolare il senso della famiglia e dell’amicizia di Kent. Sentiva una profonda compassione per chiunque, che fosse un parente o un amico.
Si rivolgeva a chiunque gli stesse parlando con un’attenzione tale da far sentire unica quella persona, chiedendo, ascoltando, chiedendo ancora e continuando ad ascoltare. Queste qualità emergono dai suoi personaggi: gente che si vuole bene, in cerca di amore e pronta a offrire amore in cambio.
Il processo di scrittura di Kent era piuttosto insolito. Usava una vecchia macchina da scrivere Underwood e una carta particolare, gialla, che amava molto.
(Amava anche il contatto e il rumore dei tasti; preferiva la macchina da scrivere al computer perché temeva di perdere una bella frase in una cattiva atmosfera).
Indossava un berretto calato fin sugli occhi così da non farsi distrarre dalla punteggiatura, dall’ortografia, dagli a capo, dalla sintassi eccetera.
Si “bendava per vedere”. Scriveva i suoi pensieri, a spazio singolo, per una pagina intera. Era in genere un’unica scena.
Poi prendeva la pagina e ci scriveva sopra con una matita appuntita (amava le matite appuntite), aggiungendo, cambiando. Quindi riscriveva a macchina l’intera scena senza berretto, con gli spazi raddoppiati, e me la passava perché la ricopiassi al computer.
Io gliela restituivo appena ultimata, così che potesse cambiarla ancora, e la riscrivevo — almeno cinque volte — fino a che per lui non era pronta. Naturalmente non la considerava mai davvero finita.
Kent e io discutevamo a lungo della storia: gli suggerivo cambiamenti tecnici (ortografia, sinonimi eccetera) ma non ho mai proposto cambiamenti più ampi. Infine spediva la copia definitiva al suo editor a New York, Gary Fisketjon.
Oltre ad ascoltarlo, commentando con delicatezza, copiando le pagine al computer, aiutavo Kent nella scrittura proteggendolo dalle interruzioni — nessuna telefonata, nessuna visita.
Lavorava ogni mattina dalle 8.30 fino a mezzogiorno, e nel pomeriggio andavamo a passeggiare in montagna con i nostri cani, o curavamo i cavalli, o andavamo a trovare gli amici. Siamo stati a centinaia di presentazioni dei suoi libri. Ogni volta che entravamo in sala, ci dicevamo: “Ok, divertiamoci”.
Parlava al pubblico e sollecitava domande e risposte — il momento che preferiva, chiacchierare con il pubblico. Kent era uno scrittore, non un uomo di spettacolo, ed era timido finché non pronunciava la prima frase — a quel punto si lanciava. La prima frase era sempre: “Sono felice di essere qui, sono felice di essere ovunque”.
Il pubblico rideva e lui prendeva il volo. È stato un compagno meraviglioso per tantissimi anni. Un uomo meraviglioso.
(da Futura, newsletter de Il corriere della sera)