Dire. Fare.
Qualche anno fa scrivevo tutto quello che mi capitava. Descrivevo le strade, le persone, ironizzavo sulle piccole sfighe quotidiane. Raccontavo di innamoramenti strazianti, di stelle a portata di dita, osservate da un balcone qualunque di un albergo anonimo. Mi ricordo bene la prepotenza con cui le parole uscivano dalle dita, si imprimevano sulla carta, o sulla tastiera. Non so cosa sia successo, se questi anni tra il nero e il grigio abbiano contaminato tutto. Può darsi, a me sembra di sì. A volte prima di dormire mi sale un nodo in gola, pieno di frasi che urlano, sussurrano e mi impegno tra sonno e veglia per ricordare tutto. Mi fanno male, spesso. Ma al mattino più niente, è tutto finito e non resta neanche una cicatrice. Mi sforzo di osservare, ma rimanere concentrata diventa faticoso, tutto passa velocemente fuori dal finestrino e io resto lì seduta e passiva, inebetita dalle cose da fare. Quelle importanti, quelle obbligatorie, quelle reali. Non c’è più posto per fantasticare. Per le stelle invernali, per le emozioni grandiose. No, i quadernini non stanno più nella borsa, le agende si riempiono di appuntamenti, fatture, impegni e si svuotano dalle poesie. Tutto più pulito. Anche i muri. Prima c’erano i quadri, le scritte, le canzoni. Adesso il bianco chirurgico di questa vita attuale, tutta convenzioni e sufficienza. Tutta una confusione. Tra il meno peggio e il meglio assoluto. Tutta un non doversi lamentare, non doversi annoiare, un dover ringraziare. Sorridi, mi raccomando. Andare a fare la spesa, correre e sbrigarsi, avere grandi obiettivi sempre, mai niente di cui vergognarsi e relegare i piccoli sogni all’uscita di servizio. Ho piegato tutto, meticolosamente. Messo la naftalina nelle tasche, inscatolato, sigillato e impilato. Oh sì. Mi sono dimenticata di quello che so fare e piegata a quello che devo fare, con dedizione e gratitudine.
Intanto, terremoti. Una scossetta, ogni tanto. Piccoli dissesti. Sudori freddi e gambe incerte. Panorami molto vasti e boccate d’aria molto profonde. Polmoni piccoli, sguardo perso.
Va a finire così, piccoli tratti fuori dai binari senza mai deragliare veramente, perché non si può. E il magone delle cose non fatte, dei mondi scoperchiati e lasciati a metà, tutti sciolti e ammuffiti ormai. Ho 30 anni, tante pagine scritte e una montagna di mozziconi spenti. Non voglio più pensare che va bene così. Perché mi commuovo ancora, certe volte. Immagino ancora qualcos’altro davanti a vastità che non conosco. Spero ancora di pescare un’altra carta, di sbronzarmi e cantare fortissimo anche se nessuno se l’aspetta più. Di baciare appassionatamente e altrettanto appassionatamente di decidere. Per me. Lo posso ancora fare, non so come, ma posso. Un passo alla volta, lo faccio.