Qualche mese fa, quando uscire dal proprio comune di residenza sembrava ancora un gesto sovversivo, io e mio marito ci siamo detti che ci sarebbe piaciuto andare via per un po’. Come tanti, dopo più di un anno di lockdown più o meno rigidi, eravamo stanchi della routine domestica, del corridoio di casa, delle uscite centellinate, dei panorami urbani come massima soddisfazione. Andiamo, ci siamo detti.
E, completamente alla cieca, abbiamo prenotato traghetti da e per la Sardegna e una casetta a Sant’Antioco, dove nessuno dei due era mai stato, per un totale di 42 giorni di permanenza. Non sapevamo se poi saremmo partiti davvero, era aprile, prima che si capisse qualcosa di definitivo sui vaccini, prima del green pass, prima di tutto quello che sta quotidianamente succedendo. Però ci siamo dati questa speranza. E il 10 agosto siamo partiti.
Noi viviamo a Parma, che è una città di provincia, piuttosto abitudinaria. Bella, abbastanza ricca, che ti avvolge come un guantino di velluto. Certe volte ti coccola, certe volte ti strangola. Io sono di indole irrequieta, irrisolta, tormentata; le routine mi fanno salire un senso di soffocamento e restare ferma mi genera prurito. In realtà non ho viaggiato molto e questo è uno dei miei più grandi dispiaceri. O meglio: se posso, scappo tutti i weekend, ma i miei viaggi e viaggetti di solito sono a portata di macchina, furgone, treno o al massimo voli low cost. Non ho mai attraversato un oceano, per dire. Mai, negli ultimi dodici anni, ho vissuto in un luogo diverso dalla mia città. Ma andare in giro mi piace troppo, mi piace osservare scenari diversi, ascoltare accenti, invidiare scorci e locali, scoprire abitudini e tradizioni e poi raccontare tutto, sul blog e sui social. Resto sorpresa a ogni viaggio. E nei mesi di covid mi sono resa conto che questa era la sensazione che più mi mancava: l’incanto della partenza.
Inadeguatezza e compagnia briscola
Io di lavoro faccio cose apparentemente sconclusionate: scrivo, organizzo, racconto, leggo. Di solito mi muovo tra le mura di casa, tra la cucina, lo studio, a volte il divano, nei giorni fortunati e tiepidi il giardino. Sono una donna delle caverne, della mia caverna. Il più delle volte sto in tuta, ma è capitato spesso di rimanere in pigiama anche tutto il giorno. Non faccio parte dell’humus di professionisti che popolano le strade della mia città, non ho neanche mai accarezzato l’idea di inserirmi in azienda e la consapevolezza di non andare d’accordo con queste dinamiche mi ha spesso regalato un senso di inadeguatezza e di inferiorità rispetto al mio contesto, ai miei amici e conoscenti. Ci sono persone che, dopo anni e anni di frequentazioni e amicizia, si sono allontanate da me perché “non approvavano il mio stile di vita”, come se decidere di non lavorare in azienda, essere freelance e avere una presenza online fosse qualcosa di disdicevole e inopportuno, non so, come trafficare droga, organi o bambini. Io però sono sensibile ai giudizi e molto spesso mi sono trovata ad andare profondamente in crisi per il mio sentirmi diversa e ho cercato, a modo mio, di uniformarmi senza successo.
Decidere di allontanarmi per un periodo da casa, per me, era diventato necessario. Necessario per lavarmi di dosso preconcetti, giudizi (non solo degli altri: più che altro miei), abitudini, ma anche e soprattutto per riprendere in mano i miei obiettivi e ricominciare da lì, in un ambiente neutro. Solo che andare via quaranta giorni è strano, da fuori. I “ah ma beati voi che potete stare in vacanza così tanto” e i “ma perché?” si sono sprecati in questi mesi e io mi sento sempre di dovermi giustificare, di dire che no non è esattamente una vacanza, casomai una distanza, che siamo nel 2021 e si può lavorare da qualsiasi posto al mondo, basta un computer. Ma davvero serve spiegarlo? Siamo abituati all’immobilità e alla routine, a certi comportamenti standardizzati e chi esce da lì e fa cose diverse viene guardato con sospetto.
Come annoiarsi meglio?
Ho letto qualche libro in queste settimane, tra cui Come annoiarsi meglio, di Pietro Minto (Blackie Edizioni). Mi sono ritrovata spesso ad annuire con decisione mentre lo sfogliavo e a sottolineare energicamente certi passaggi; penso che ogni millenial dovrebbe leggerlo. Forse il titolo è fuorviante, potrebbe sembrare un manualetto spensierato adatto alle vacanze, quando in realtà è un saggio ironico ma anche tagliente sulla nostra (mia) generazione e sul rapporto distorto che abbiamo con il tempo e con l’operosità ossessiva a cui siamo abituati e che, anzi, ci viene richiesta. Sfata molti dei miti perversi della società attuale, dall’imperante multitasking (che non esiste, perché il nostro cervello non può occuparsi di più faccende nello stesso momento), alla trappola dei lavori creativi, che finiscono per scatenare paranoie varie tra cui la diffusissima Sindrome dell’impostore e la FOMO, alla visione distorta dell’ozio, male assoluto nemico della produttività, ai preconcetti secondo cui tutto sommato non possiamo lamentarci delle condizioni di lavoro di oggi (nel libro è ben spiegata l’evoluzione della storia del lavoro e del suo impatto sulla società e sullo stile di vita). Mi sono ritrovata in molti degli argomenti trattati e mi sono sentita sollevata, per certi aspetti, meno sola davanti a sensazioni di frustrazione che mi trovo spesso a fronteggiare.
“Vogliamo davvero accontentarci di stare lievemente meglio di uno zappatore dell’anno Mille? Si sono davvero ridotte a questo le nostre ambizioni? Sarò un ottimista, ma io cercherei di volare più alto degli standard dell’Alto Medioevo, cercando una strada migliore per lavoratori e lavoratrici. Per questo (…) dobbiamo abbandonare l’Illuminismo e i campi di barbabietole per trasferirci in un ufficio qualunque. L’ufficio è il cuore di un annoso problema economico, culturale, sociale e psicologico: quello dell’annichilente noia vissuta e subita dai milioni di lavoratori che vi lavorano ogni giorno. (…) L’ufficio è la piastra di Petri ideale per osservare complessi stati d’animo quali la noia e i suoi principali satelliti: frustrazione, ansia, tristezza…” (P.Minto)
Da adesso in poi
Ora, che andiamo verso la fine di questa esperienza sarda, inizio a sentire nostalgia di casa. Anzi, di Parma. Mi manca la città, ecco, sì, perché è bella e ho voglia di ritrovare quella bellezza a cui sono tanto affezionata, ma non nego che ho molta paura di ripiombare in quelle dinamiche che ormai conosco a memoria. Spero che questo periodo sia l’inizio di una nuova tendenza fluida e leggera, che mi renda possibile spostarmi, rendermi “bersaglio mobile” – per citare di nuovo Romagnoli – quando ne sento la necessità. Ho la fortuna di sentirmi a casa più o meno ovunque, vedo vite potenziali in ogni posto e di fatto è così: sta a noi allenare lo sguardo, crearsi, con i propri mezzi, delle possibilità.
Questo mese e mezzo è il regalo più grande che potessimo farci.
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